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domenica 21 maggio 2023

Perché i giovani abbandonano lo sport?

Di Carmela Maggio per Basket Sardegna – Fonte Farantube

Alcuni talenti arrivano a giocare nelle squadre più importanti, tra campionati nazionali e regionali, altri si fermano da giovani. Ma come mai? Perché i giovani abbandonano lo sport? In qualsiasi sport, a partire dal calcio, passando per la pallavolo e finendo con il basket, l’abbandono dello sport giovanile è un fenomeno sempre più diffuso tra i bambini e i ragazzi. 

Spesso causato da diversi motivi come lo sviluppo di nuovi interessi e impegni, l’insoddisfazione nei confronti dei propri allenatori e compagni di squadra, la pressione eccessiva dei genitori e la mancanza di divertimento e soddisfazione personale. 

Questo fenomeno è importante da considerare perché lo sport può offrire ai giovani molteplici benefici, non solo a livello fisico, ma anche a livello psicologico e sociale. Quindi, è importante comprendere le cause dell’abbandono dello sport giovanile e cercare di trovare soluzioni per incentivare e motivare i giovani ad avere una vita sportiva attiva.

L’abbandono da parti dei ragazzi dello sport giovanile
L’abbandono dello sport giovanile da parte dei ragazzi è un fenomeno abbastanza comune e può essere causato da vari motivi. Alcuni ragazzi smettono di praticare uno sport perché sviluppano nuovi interessi o impegni che richiedono più tempo e impegno, come ad esempio lo studio o altri hobby.

In altri casi, l’abbandono può essere causato da una cattiva esperienza o da un allenatore che non è riuscito a motivare il ragazzo o a creare un ambiente sano e positivo nella squadra. La pressione da parte dei genitori o dei compagni di squadra può anche essere un fattore che contribuisce all’abbandono.

Per evitare l’abbandono dello sport giovanile, è fondamentale che gli allenatori creino un ambiente di sostegno e motivazione per i ragazzi, incoraggiandoli a progredire e divertirsi nello sport. I genitori dovrebbero anche evitare di esercitare pressioni sui propri figli e invece incoraggiare e sostenere i loro sforzi e successi.

Entrando nel dettaglio, gli sport giovanili dovrebbero essere visti come un’opportunità per sviluppare caratteristiche importanti come l’impegno, la perseveranza e la leadership, piuttosto che solo come una forma di svago o tempo libero. 

I rapporti con gli allenatori
Una delle ragioni per cui i giovani abbandonano lo sport è il rapporto con gli allenatori. Infatti, i legami tra gli atleti e gli allenatori possono avere un impatto significativo sulla partecipazione e sul successo sportivo degli atleti. Un buon allenatore deve essere in grado di motivare e ispirare gli atleti, fornire una guida per lo sviluppo del talento e dell’abilità degli atleti e creare un ambiente positivo e stimolante per la squadra.

D’altra parte, gli atleti dovrebbero anche lavorare per costruire una buona relazione di lavoro con il loro allenatore. Ciò significa:

seguire le istruzioni dell’allenatore
rispettare le regole e lo stile di coaching
impegnarsi al massimo nelle sessioni di allenamento e competizione
mantenere la comunicazione aperta con l’allenatore in modo che gli obiettivi e le aspettative siano chiari

Un’altra parte importante dei rapporti tra gli allenatori e gli atleti è la capacità di fornire un feedback efficace e costruttivo. Gli allenatori dovrebbero essere in grado di valutare l’abilità e le prestazioni degli atleti in modo oggettivo e fornire un feedback che sia costruttivo, ma anche motivante e incoraggiante. 

Gli atleti dovrebbero anche essere in grado di ascoltare attentamente il feedback dell’allenatore e cercare di applicarlo per migliorare la loro abilità.

Dunque, i rapporti tra allenatore e atleta sono fondamentali per il successo sportivo. Una relazione basata sulla comunicazione aperta, il rispetto e la motivazione può aiutare gli atleti a raggiungere il loro pieno potenziale e ad avere successo nello sport.

Le problematiche legate alle aspettative
Le aspettative possono essere una forza motivante nel raggiungimento degli obiettivi, ma anche una fonte di stress e ansia se diventano eccessive o irrealistiche. Questo è particolarmente vero nello sport, dove le aspettative degli allenatori, dei genitori, degli spettatori e persino degli atleti stessi possono avere un impatto significativo sulla prestazione e sul benessere mentale degli atleti.
Per esempio, nel momento in cui un atleta ha aspettative irrealistiche su sé stesso, come vincere ogni gara o raggiungere sempre un punteggio perfetto, potrebbe diventare estremamente stressato e ansioso se non riesce a soddisfare queste aspettative. 

Allo stesso modo, se gli allenatori o i genitori impostano aspettative irrealistiche per un atleta, ad esempio aspettarsi che vincano ogni partita senza considerare altri fattori, questo potrebbe mettere un carico mentale eccessivo sugli atleti e influire negativamente sulla loro performance e autostima.
Per di più, le aspettative possono anche creare una pressione pericolosa sulle prestazioni, che può portare a infortuni, stanchezza mentale e potenzialmente anche alla rinuncia alla pratica sportiva.

Per evitare le problematiche legati alle aspettative, è importante mantenere una visione realistica e positiva delle proprie capacità e delle proprie opportunità, senza far emergere speranze troppo elevate. Gli allenatori e i genitori dovrebbero anche evitare di impostare aspettative eccessive o irrealistiche per gli atleti, invece di concentrarsi sul miglioramento progressivo dell’atleta.

Un altro importante aspetto è la comunicazione aperta e il supporto emotivo degli allenatori e dei genitori, in modo che gli atleti siano supportati anche in momenti di difficoltà o di fallimento, per poter rimotivare l’atleta dopo un insuccesso e rendere maggiormente soddisfacenti le eventuali vittorie.

Esempi nel basket
Perché i giovani abbandonano il basket? Ecco alcuni esempi di motivi per cui i giovani potrebbero abbandonare la pratica del basket:

Mancanza di tempo: con l’aumentare delle responsabilità scolastiche e sociali, alcuni bambini e ragazzi potrebbero sentirsi troppo impegnati per continuare a giocare a basket.
Pressione eccessiva: quando gli allenatori e/o i genitori esercitano troppa pressione su un giovane giocatore, questo potrebbe portare ad un eccessivo stress mentale e, a lungo termine, all’abbandono del basket.
Infortuni: gli infortuni sono un fattore comune che può portare all’abbandono del basket. I giovani potrebbero sentirsi scoraggiati o spaventati dall’idea di subire ulteriori infortuni in futuro.
Competitività sfrenata: se le partite sono troppo impegnative o gli allenatori mettono troppa enfasi sulla vittoria, potrebbe essere difficile per i giovani distinguere tra il gioco per divertimento e la pressione di dover vincere a tutti i costi. Questo potrebbe portare ad un calo di motivazione nel lungo periodo.
Mancanza di divertimento: se i giovani non si divertono durante gli allenamenti e/o le partite, potrebbero perdere interesse per il basket e scegliere di abbandonare lo sport.

Questi sono solo alcuni dei motivi per cui i giovani potrebbero abbandonare il basket, ma ci sono molte altre ragioni possibili. È importante che gli allenatori e i genitori lavorino insieme per creare un ambiente sano e motivante per i giovani giocatori, ispirandoli a trovare la passione per lo sport e a sviluppare le loro abilità in modo continuo e progressivo.

Come si può risolvere?
Ci sono molte attività che allenatori e genitori possono intraprendere per risolvere le problematiche che portano all’abbandono dello sport giovanile nel basket. 

Ecco alcuni esempi:

Creare un ambiente di gioco sano: gli allenatori e i genitori dovrebbero lavorare insieme per creare un clima di gioco positivo, motivante e divertente per i giovani giocatori. Ciò significa che dovrebbero essere incoraggiati i comportamenti fair-play, rispettare le regole e i compagni di squadra, centrando l’attenzione sul divertimento piuttosto che sulla vittoria.

Coinvolgere gli atleti nelle decisioni: gli allenatori che coinvolgono i giovani giocatori nella presa di decisioni, come la scelta delle tattiche o degli allenamenti, aiutano ad aumentare il loro senso di responsabilità e motivazione, consentendo loro di sentirsi parte integrante della squadra e dei processi decisionali.

Fornire un feedback costruttivo: gli allenatori e i genitori dovrebbero fornire feedback costruttivi e specifici per supportare gli atleti a sviluppare le loro abilità, in modo che possano vedervi significativi progressi con il raggiungimento di obiettivi personali motivanti.

Ridurre la pressione: allenatori e genitori dovrebbero evitare di porre troppe aspettative sugli atleti e fornire un sostegno emotivo aiutando gli atleti a sentirsi più a loro agio e supportati a gestire lo stress legato a prestazioni elevate.

Servire da modelli positivi: gli allenatori e i genitori dovrebbero essere modelli di comportamento positivo, mantenendo un atteggiamento calmo e rispettoso in ogni situazione, ispirando gli atleti a imitare questo tipo di approccio.
Adottando queste strategie, gli allenatori e i genitori possono contribuire a creare un ambiente positivo e motivante per i giovani giocatori e aiutarli a mantenere l’interesse e la passione per il basket.

sabato 28 novembre 2015

Bisogna fare in modo che il settore giovanile torni ad essere un'esigenza

dal sito  Bologna Basket

Articolo intervista di cui vi consiglio la lettura, preso dal sito Bologna Basket, che parla dell'argomento giovani, un argomento che molto spesso le società hanno dimenticato e forse solo ora in tempo di vacche magre, si sono ricordate che esistono.

Era il 1983, quando Giordano Consolini si affacciò al mondo bianconero. Da allora, a parte una breve parentesi appena fuori dalla sua Bologna, a Reggio Emilia, da quel mondo non è più uscito. Conoscendo i fasti della prima squadra, da assistente di Ettore Messina nei giorni della gloria e dell’Europa vista dall’alto, e ancora da capoallenatore riportandola dove meritava di stare, nella massima serie, dopo le stagioni più difficili. Ma soprattutto dedicandosi ai giovani, per scelta, “per cercare di aiutarli a crescere attraverso lo sport che amo, la pallacanestro”. La passione che si fa vocazione. In modo naturale.

Consolini, perché in casa Virtus il settore giovanile è così importante, così caratterizzante?
“Questo andrebbe chiesto a chi anche oggi ci investe, credendoci. Personalmente, penso che nella nostra società sia diventato una questione culturale, e così dovrebbe essere in effetti per tutte le società. Il settore giovanile si può fare bene o male, ci si può investire tanto, così così, anche meno. Ma è un dato di fatto che per qualcuno, pochi purtroppo, è qualcosa che fa parte dell’essere società, dei doveri e delle responsabilità che ha una realtà sportiva importante come la nostra. Che a mio modo di vedere si deve fare carico della formazione, proprio come una società civile, uno Stato, dovrebbero occuparsi della gioventù, della sua educazione, della sua crescita”.

In casa Virtus sono concetti ben noti da tempo.
“Al di là delle regole, delle condizioni che sono cambiate dai tempi dell’avvocato Porelli a oggi, ci deve essere un senso di dovere nei confronti della formazione. Credo che una società di vertice debba occuparsene, e dare anche l’esempio alle altre società. In qualche modo, deve fare tendenza”.

Fare tendenza oggi può voler dire invertire un trend che sembra non lasciare troppi spazi a chi esce dal settore giovanile e cerca di mettersi in luce col talento e la volontà.
“Bisogna fare in modo che il settore giovanile torni ad essere un’esigenza. Ovvio che contano regole e condizioni attuali. Quando c’era l’avvocato Porelli era davvero conveniente allestirlo, ti dava anche degli introiti oltre a produrre giocatori per la prima squadra e un senso di appartenenza, e a dare ai tifosi il piacere di vedere un ragazzo del vivaio crescere e diventare un po’ alla volta un giocatore importante. Sono valori oggi disconosciuti, tranne in qualche rara eccezione. La Virtus è una di queste, e oggi rafforza il senso di un progetto che ha radici antiche e guarda al futuro”.

Cosa hanno dato, a Giordano Consolini, questi decenni di lavoro accanto ai giovani, arricchiti da sei titoli italiani di categoria?
“E’ stata una mia scelta. Non l’ho mai messa in discussione in tutti questi anni, mai un secondo ho pensato a cosa avrei potuto fare se… Fuori dalla retorica, amo profondamente il rapporto quotidiano con i ragazzi e il poter essere, presuntuosamente, un loro aiuto per farli crescere meglio. Attraverso la pallacanestro, che amo.
E’ una cosa egoistica, prima di tutto, un mio appagamento. Ma è sincera, per questo credo di poterla “confessare” apertamente”. Vado in palestra con loro e provo da sempre a farli diventare giocatori migliori e, anche se loro non lo sanno, uomini migliori. Perché mai come in questo momento mi rendo conto che hanno bisogno di regole. E noi possiamo fargli capire quanto sia bello darsi una disciplina, che è una parola bellissima: disciplina non è stare in fila per tre, ma darsi delle regole cercando di onorarle”.

Banale chiedere se e quanto siano cambiati i giovani, in questi trent’anni.
“I giovani sono sempre giovani, è il mondo che è cambiato. L’unica cosa che viene percepita in modo leggermente diverso è il senso della responsabilità. Affrontare le responsabilità e sapere che comportano delle conseguenze, positive o negative. Ma se si è un po’ persa questa sensazione è colpa nostra, siamo noi cinquantenni ad essere meno responsabili di quelli di trent’anni fa”.

Dopo oltre un decennio al timone del settore, continua a vivere questo rapporto guidando una squadra giovane, l’Under 15, nella struttura gestita ora da Federico Vecchi, che ha raccolto il suo testimone. Cosa la spinge a varcare oggi come trent’anni fa la porta della palestra Porelli?
“Stare in mezzo ai giovani significa cercare di stare al passo, aggiornarsi, essere svegli, avere un atteggiamento positivo. Questo, mi illudo, può darmi la possibilità di invecchiare meglio”.

In questo cammino di insegnamento del basket alle nuove generazioni, quali sono state le persone determinanti per Giordano Consolini?
“Ho avuto la fortuna di avere grandissimi maestri, di crescere e formarmi nella Virtus. Tra persone eccellenti, allenatori e non solo: partendo dall’avvocato Porelli per arrivare a Ettore Messina, passando dal professor Enzo Grandi, da tanti altri personaggi unici. Chiaro che Ettore ha un posto speciale in tutto questo. Se ho potuto stare nel basket, essere a contatto con campioni immensi, avere esperienze inimmaginabili, devo ringraziare prima di tutto lui”.

Marco Tarozzi

giovedì 26 novembre 2015

Stono fuori dal coro ma sto dalla parte di Sardara

Claudio Pea
Dal Blog di Claudio Pea 

Non sto nel gregge. Anche perché c’è sempre puzza di caproni. Che Gesù, come è scritto nel Nuovo  Testamento, paragonò ai suoi falsi seguaci. Dai quali Dio me ne guardi, scampi e liberi. Né sono Bastiano che remava per principio contro corrente. Troppa fatica. E per quale ragione? Per finire in bocca agli orsi come i poveri salmoni? Non sono ancora così sciocco. E allora? Semplicemente non capisco quest’esercito di benpensanti che si è schierato compatto dalla parte di Meo Sacchetti contro il feroce saraceno di Sassari, al secolo Stefano Sardara, che per la verità a me non sembra poi così malvagio. Anche se l’abito non fa il monaco e dietro quella faccia da buono si nasconde magari un uomo senza cuore. Del resto col presidente del Banco di Sardegna non ho mai scambiato più di un saluto e men che meno abbiamo mangiato insieme quattro spaghi con la bottarga di muggine e pomodoro. E uno spicchio d’aglio che farà anche l’alito cattivo, ma che è un ingrediente fondamentale per quel piatto di cui vado perdutamente scemo. Mentre MaraMeo lo conosco da una vita e non ho mai nascosto le mie simpatie per il giocatore, che fu l’asso nella manica di Sandro Gamba agli Europei di Limoges e Nantes nell’anno d’oro 1983, e per l’allenatore che mi ha spesso divertito con la sua pallacanestro alla viva

mercoledì 11 novembre 2015

Gli allenatori italiani sanno far crescere talenti? pensiamo di no!


Vi proponiamo la lettura di questo editoriale di Pianeta Basket

La fatalità vuole che questo editoriale prende il posto di quello di Carlo Fabbricatore che, prima della giornata di Euroleague, spiegava come " I nostri team soffrono la fisicità dei centri avversari e subiscono in modo letale la difesa aggressiva" avendo già premesso che "le nostre squadre non sono attrezzate per ambire alle Final Four." La prova dei fatti ha spietatamente dimostrato che l'analisi era vera e non cattiva, e come l'analisi tecnica competente è scevra da sterili polemiche. Al grande Carlo vogliamo aggiungere solo il carico da novanta di un Barcellona che è andato a sbancare il tempio del basket lituano dello Zalgiris tenendo come lunghi di riserva i due che, nell'ultima stagione in Italia, venivano considerati i migliori della serie A: Shane Lawal e Samardo Samuels.

E nessuno venga a pietire che Samuels sia partito in starting five: in campo c'è stato 10 mnuti e, quando c'era da vincere la partita Xavi Pascual ha messo Doellman e Tomic. Amen. La realtà è che in Italia non ci possiamo permettere gli stipendi delle riserve del Barcellona, ma la realtà è anche che gli allenatori italiani delle giovanili non sanno tirare su ragazzi che da uomini saranno big man a prescindere se giocheranno a basket o meno. La prova del nove ce la dà il boxscore dell'Olimpia Milano. A far male alla formazione di Repesa, giovedì, sono stati un certo Miro Bilan, 26enne croato di 2,13 leggerino (neanche 100 chili, secondo la Wikipedia), Karlo Zganec, un ventenne 2,06 di belle speranze e Marko Arapovic, 19 anni accreditato di un taglia di 2,07. Messi insieme non fanno sicuro lo stipendio di un McLean o di un Hummell qualsiasi...

Adesso arriva il mammasantissima (suo malgrado) Ettore Messina a resuscitare l'italico orgoglio e le pruderie di successo della FIP. Con un pizzico di tradizionale stellone e giocando in casa il Preolimpico, a Rio de Janeiro potremo anche andarci. Ma dietro la facciata c'è da affrontare subito - visto che i soldi per comprarsi le scorciatoie non ci sono più - il problema della capacità di reclutamento a cavallo tra il minibasket e l'agonismo degli esordienti. E basta con le favole degli slavi ben dotati dalla natura: non ci crede più nessuno. Basta camminare per le strade di Lubiana o Zagabria, incrociare per quelle delle città italiane i tanti immigrati che arrivano per vedere che sono alti e bassi, magri o grassi esattamente come noi. E se da un paese di 4 milioni di abitanti come la Croazia possono uscire per il Cedevita tre giovanotti di belle speranze che vengono a sbancare il Forum, da un paese di quasi 60 come l'Italia ne dovrebbero uscire tre solo per il roster milanese. Spiegateci il contrario.


Il basket per i grandi esperti

di Stefano Muscas 11/11/2015

Dopo un mese dall’inizio della stagione cestistica cagliaritana si può fare già un primo bilancio anche in funzione dei commenti che arrivano via mail e tramite la pagina facebook.
I disfattisti che vedono il bicchiere mezzo vuoto  non si rassegnano a un basket di retroguardia, abituati forse a vedere grandi campioni transitare per i nostri campi...
Ho già ricordato più volte che la serie A manca da 35 anni e che la B1 della Russo è datata circa sette anni fa. Lo scorso anno l’Olimpia affrontò la B(2) , campionato molto impegnativo per i mezzi economici della società ma , comunque, zeppo di ottimi giocatori, Ma il palazzetto i grandi buongustai del basket non è che lo frequentassero abitualmente.

Ci sarebbe la A1 del Cus ma il basket femminile è "un altro sport" per i super esperti nostalgici di Bob Morse e Meneghin. Invece no! Il basket femminile è Basket con la B maiuscola, soprattutto nella nostra A1, nella quale giocano fior di atlete.

Se posto una foto del Palazzetto durante una partita di C, i commenti sono di questo tenore: "eh ma non c’era nessuno". Ora, pretendere di riempire il  Continua a leggere


giovedì 20 agosto 2015

Massimo Lucarelli: 65 candeline e un cuore cagliaritano

Di Stefano Muscas

E’ il 1974 quando la Pallacanestro Ignis Varese decide di cedere un ventiquattrenne lungo, anzi ..lunghissimo, al Brill Cagliari; Massimo"Lucky" Lucarelli , che per i vari annuari e riviste andava dai 2,10 ai 2,14, aveva appena arricchito il suo  palmares con due scudetti e una Coppa dei Campioni  ma, chiuso nel ruolo da Dino Meneghin, suo amico ,coetaneo e compagno fin dalle nazionali giovanili (bronzo europeo nel 1968) aveva la necessità di trovare una società che lo facesse giocare con continuità. 

Parliamo di un giocatore la cui tecnica  di gancio sotto canestro  era molto efficace ma che, si diceva, avesse un carattere particolarmente... ansioso per quanto qui a Cagliari, credo che nessuno se ne accorse. 

Lo Yearbook del 1974/75, pubblicato da "Giganti del basket" e dalla Lega, con la collaborazione di giornalisti come Gianni Menichelli, Marino Bartoletti e Massimo Mangano (sì , proprio lui) , parlando della sua esperienza a Biella. che lo accolse dalla natìa Ancona , lo presentava così: "...Continua a leggere


mercoledì 12 agosto 2015

Steve Puidokas "Un armadio a quattro ante con la mano piuttosto morbida"

Stefano Muscas - 11/08/2015, 15:29

Su Puidokas è stato scritto già tanto, e forse ancora di più dopo la sua scomparsa, avvenuta il 12 agosto 1994 . 

Si è parlato tanto della sua famiglia , dei suoi cinque figli  che non hanno potuto goderselo più di tanto visto che Sabrina , la più grande, aveva appena tredici anni quando Steve se ne andò; si è scritto della assurdità delle leggi federali che, nonostante una situazione consolidata come cittadino Italiano, non gli consentivano, da italiano, di giocare oltre il campionato di Promozione negli ultimi anni di carriera .

Sono quindi andato a verificare cosa fosse il Puidokas giocatore. Duecentoundici centimetri, recitano gli annali, nato a Chicago nel 1955 , la sua carriera americana tra il 1973 e il 1977 si svolse a Washington State dove diventò il miglior realizzatore e rimbalzista di tutti i tempi.

A Cagliari arrivò nella stagione 1977/78, "su segnalazione di Howie Landa"; era il campionato...Continua a leggere


venerdì 17 luglio 2015

Oggi su Cagliaribasket











Quando ho parlato a mio fratello Beppe dell'idea di cagliaribasket.it, lui è subito andato a fare un inevitabile raffronto tra presente e passato ma, essendo io più giovane di una dozzina d'anni, sono stato colpito da una frase buttata lì all'improvviso: " Ma... hai idea di cosa fosse Tore a quindici anni? E quella squadra dei ragazzi del Brill?". No...non ho idea ma  non trovo una  maniera migliore  per presentare un grande giocatore dei tempi d'oro e che, dopo il Brill, ha giocato anche a Pordenone, Latina e Sassari per poi "rischiare"di tornare in A nel 1986 proprio con Beppe in panchina. 

Lo chiamo al telefono, gli parlo di nomi del basket più vicino ai nostri tempi e subito mi dice:" La gente si ricorda di ciò che ha visto; normale che una certa fascia d'età di appassionati parli degli....Continua a leggere


lunedì 15 dicembre 2014

Storie di basket: " l'amico" tabellone


Oggi lo usiamo per appoggiarci i lay-up o, se siamo molto precisi, anche i tiri dalla media distanza, ma in realtà nasce con tutt'altro proposito: quello di evitare che gli spettatori respingano i tiri dei giocatori dagli spalti.


Dite la verità. Vi sarà capitato, almeno una volta, di andare al campetto e vederlo: il cinquantacinquenne brizzolato, coi pantaloncini inguinali, le All-Star di tela ai piedi, i calzettoni al ginocchio e il petto nudo, riarso dal sole ma nello stesso tempo imbiancato dal pelo. Un tempo, probabilmente, è stato un discreto giocatore delle minors, magari con un passato anche in qualche Serie C2: ora è raggrinzito e flaccido, con un accenno evidente di pancetta, ma dalla media distanza ha quella sua dannata mattonella: bum! Bum! Bum! Spingardata contro il tabellone che assorbe dolcemente il pallone recapitandolo costantemente sul fondo della retina. Cascasse il mondo, non ne sbaglia uno. Più preciso di Tim Duncan. E voi lì, a sudare trottolando su voi stessi a furia di cross-over e a portare a casa, ogni tanto, un faticosissimo and-one in penetrazione.

Eppure, l’amico tabellone non è da subito un compagno della pallacanestro, così come il suo alleato ferro. Come abbiamo visto, quando James Naismith organizza la prima partita di Basket Ball nel dicembre 1891, utilizza due cestini per raccogliere le pesche come “bersaglio”, un ripiego molo artigianale e curioso rispetto alla sua idea originale: quella di usare, invece, un paio di rudimentali scatole di cartone.

I primi canestri, come abbiamo visto, sono “chiusi” e nemmeno troppo resistenti, come potrete facilmente immaginare: il basket sarà anche un gioco nuovo, divertente e contagioso, ma non particolarmente comodo: dopo ogni segnatura, infatti, l’arbitro è costretto a fermare la partita per recuperare il pallone terminato sul fondo del cesto e rimetterlo in gioco tramite un salto a due (come una contesa) a centrocampo, con ovvii vantaggi per la formazione che può schierare un giocatore più alto e dotato di buona elevazione (no, la palla non va alla formazione che ha subito il punto…).

Non solo, essendo i primi canestri appesi ai ballatoi delle palestre (quello originale di Naismith, posto a 3.05 metri di altezza, ha poi dettato una norma del regolamento) si trovano alla mercé degli spettatori, che possono intervenire dall’alto deviando i tiri o provando a indirizzarli verso il fondo del cesto stesso (a seconda del tifo, chiaro!). Quando si cerca di porre un rimedio appendendoli, invece, direttamente ai muri della palestra, si finisce con l’avvantaggiare i giocatori, che possono, con una specie di mossa da arti marziali, saltare appoggiandosi al muro stesso per avvicinarsi il più possibile al cesto e aumentare la propria percentuale realizzativa (no, il “fuori” come lo intendiamo oggi è ancora lungi dall’essere sdoganato).

La soluzione definitiva, dunque, è quella di porre qualcosa tra i cesti e il pubblico per evitare le interferenze: nasce, così, il tabellone, prima come una rete metallica a maglie esagonali (piuttosto tagliente, diciamo la verità), poi trasformato in una lastra di legno per motivi di sicurezza e infine di plexiglass per agevolare al massimo la visuale da dietro.

I canestri, che passano dagli originali cestini di pesche ad anelli di fil di ferro nel 1892 e poi di ghisa nel 1893, vengono staccati di due piedi dai muri nel 1916 per evitare i “salti” dei giocatori, e di 4 nel 1939, per motivi di sicurezza (cadute e infortuni al capo o agli arti sono all’ordine del giorno…): i primi canestri “aperti” arrivano soltanto nel 1912, quando la retina di nylon viene definitivamente sdoganata, permettendo al pallone di fuoriuscire autonomamente dall’anello dopo ogni segnatura ed evitare così quelle macchinose operazioni di salto a due dopo ogni canestro realizzato.

Per il primo incidente ufficiale, invece, dobbiamo attendere fino al 1946, quando Kevin Joseph Connors, meglio conosciuto come il “Chuck” Connors del grande schermo, protagonista di decine di serie televisive e film di stampo western tra gli anni ’50 e ’70, manda in frantumi un tabellone durante il riscaldamento di una partita dei Boston Celtics (sì, prima di diventare attore è stato anche giocatore di basket e di baseball, vestendo le maglie degli allora Brooklyn Dodgers – oggi Los Angeles – e Chicago Cubs). I ferri molleggiati entrano in vigore molto tempo dopo, negli anni ’80, quando le schiacciate spacca-tabelloni di Darryl Dawkins cominciano a costare troppi quattrini…

giovedì 4 dicembre 2014

Una storia vera, una storia di basket

Questa è una storia di sport, ma non ci sono personaggi famosi. Niente stelle NBA, niente supercampioni: solo il basket e un gruppo di ragazzi appassionati.

Siamo in Francia, a un torneo universitario. La competizione è elevata, il torneo è abbastanza prestigioso e poi si sa, i Francesi sono competitivi. Tra tutte le squadre del torneo ce ne è una che è universalmente riconosciuta come la più scarsa di tutte: i suoi giocatori sono pieni di cuore, appassionati di basket, ma mancano quasi del tutto di talento e atletismo. Il capitano è l’unico giocatore di buon livello, una sorta di Kevin Love con l’aspetto di Kurt Rambis.

Al torneo la squadra si presenta con soli sei giocatori, un allenatore e qualche tifoso. Esami, lezioni e casini vari fanno sì che, di tutte le squadre presenti, quella più scarsa sia anche quella con meno giocatori. Si gioca su due soli tempi di gioco, ma gli altri hanno rotazioni, fisico e centimetri, i nostri solo tanta buona volontà.

La prima partita passa quasi sotto silenzio, una sconfitta pesante in cui il capitano è l’unico a segnare. La seconda gara si preannuncia anche peggio: gli avversari ovviamente non sono la seconda squadra più scarsa del torneo, una con cui potrebbero avere una possibilità, ma i favoriti. Già questo basterebbe per fiaccare il morale di chiunque, ma dato che se sei sfigato la sfiga si diverte ad accanirsi, nella prima partita si sono infortunati due giocatori. Caviglia e ginocchio, fuori di sicuro per la partita successiva. I nostri si ritrovano così in quattro, con la prospettiva di non poter giocare.

La loro passione è tale che, pur di scendere in campo, sono disposti a tutto. Così trovano un quinto giocatore: il loro primo tifoso, che li segue ovunque vadano, un grande appassionato di basket che, per fare un favore ai suoi amici, si allaccia le scarpette e scende in campo al loro fianco. Niente di particolare – di storie come questa se ne vedono mille nei tornei amatoriali – se non fosse per un dettaglio: il primo tifoso è un nano, e non nel senso che è particolarmente basso. E’ un ragazzo affetto da nanismo, con una passione gigante per questo gioco, una passione che non ha mai potuto però mai mettere in pratica in una partita ufficiale. Fino a oggi.

La partita inizia, e i nostri vanno subito sotto. Gli avversari giocano piano, non si sprecano più di troppo, ma dopo il primo tempo sono già 30-8. Il capitano lotta, fa coraggio ai compagni, ma la sfida sembra senza speranza. Il tifoso si sbatte, ruba anche un paio di palloni, ma la sua impotenza rappresenta quella della sua squadra.

Nel secondo tempo, però, cambia qualcosa: il capitano si carica la squadra sulle spalle, e riporta i suoi a una distanza più accettabile, 41-36. Mancano solo cinque minuti, quando il capitano ruba palla e lancia un suo compagno in contropiede. Arresto e tiro da sotto canestro, molto anni Cinquanta, e appoggio facile al tabellone. Gli avversari cominciano a preoccuparsi, cercando di giocare duro, ma ormai i nostri sono in trance agonistica. Difendono l’area con le unghie e con i denti, improvvisando una zonaccia bulgara d’altri tempi, e costringono gli avversari al tiro da fuori: sbagliato, e rimbalzo preso dal capitano. Palla al play, e si va dall’altra parte.

Gli avversari collassano tutti sul capitano, impedendogli la ricezione. Il play esita, ferma il palleggio e viene aggredito. Sta per perdere la palla, quando vede il tifoso nell’angolo, solo. Lancia la palla nella sua direzione, e il tifoso la prende. Ci mette un secondo per realizzare cosa sta succedendo, poi si prepara al tiro. Il centro avversario recupera verso di lui e, per la prima volta da inizio partita, prova seriamente a fermarlo. Il tifoso lascia andare la palla. Il centro avversario salta, la mano protesa verso l’alto, ma la palla passa appena sopra alle sue dita. Il palazzetto è tutto in silenzio: so che sembra retorico, ma era così, una cosa surreale. La palla, lentamente, comincia a scendere, e finisce dentro il canestro sfiorando appena la rete. 55 pari.

Il tifo esplode, i compagni pure. Solo il tifoso e il capitano rimangono concentrati, e tornano rapidamente in difesa. Mancano 15 secondi. Il miglior giocatore avversario si alza dalla panchina, su cui era seduto da almeno sei minuti, e si fa passare la palla. Prova a penetrare, ma deve fermarsi perchè l’area è intasata. Fa per girarsi, quando qualcuno gli ruba la palla di mano, usando tutta la forza che ha in corpo. Il tifoso palleggia in avanti, poi vede il capitano vicino a lui e lo serve. Tre secondi. Supera la metà campo. Due secondi. Arriva alla linea da tre. Un secondo. Tiro in sospensione, fuori equilibrio. Parabola perfetta, ciuffo. 58-55.

Non vi parlerò del dopo partita, del delirio di tutti i presenti, della felicità dei nostri, della luce negli occhi del tifoso, una luce che rifletteva qualcosa di più della vittoria. Non serve. Credo che questa storia possa parlare da sola.

Solo amicizia passione e sudore ti fa capire l'amore per il basket.

( We love this game 1980)

Antonello Civiletti

lunedì 29 settembre 2014

Genitori e minibasket


“Cari genitori la motivazione per la quale vostro figlio pratica un’attività sportiva può essere completamente diversa da quella che voi avete in testa: avete mai visto un papà o una mamma che hanno giocato a basket da giovani portare il figlio o la figlia ad un corso di golf?” 

Può succedere, certo, ma non è la regola. La società dei giorni nostri impone paragoni sempre più sfidanti in tutti i campi e quindi anche nello sport. Questa pressione ricade tanto sui genitori, quanto sui bambini e sui loro Istruttori.

Gli Istruttori Minibasket devono fare gli Educatori non i Supertecnici!

I genitori avvicinano i bambini alle attività sportive che essi stessi prediligono, aspettandosi che la motivazione del bambino coincida con la loro. 

Molti bambini si sentono sotto pressione per via delle aspettative dei loro genitori, per il giudizio dell’Istruttore e dei loro compagni di squadra. Lasciamoli divertire.

Mai il tecnicismo a quest’età deve superare la persona!

DECALOGO DEI GENITORI

I genitori:

1) non devono limitare l’attività sportiva dei figli per punizione

2) non devono interferire sulle scelte tecniche e nelle decisioni degli Istruttori

3) devono rispettare gli arbitri e le squadre avversarie

4) non devono contestare platealmente davanti a tutti

5) devono andare a vedere più spesso i loro figli quando giocano

6) devono “vivere” la partita di Minibasket in modo tranquillo e non traumatico, rendendola un momento importante, interessante e piacevole, ricordando che si tratta sempre e comunque di un gioco.

7) devono incoraggiare i propri figli a impegnarsi sempre di più, facendo capire loro che l’impegno in palestra e a scuola sarà una futura fonte di soddisfazione

8) devono stimolare la crescita dei propri figli attraverso lo sviluppo della loro indipendenza, evitando di essere sempre onnipresenti a tutti i costi e in tutte le situazioni

9) devono capire che il Minibasket è un gioco, è una forma di socializzazione e di divertimento e non è la pallacanestro in miniatura

10) devono capire che anche la delusione di una sconfitta diventa un mezzo per crescere, perché la “non vittoria” stimola a migliorarsi attraverso gli allenamenti e questo atteggiamento si riflette positivamente sullo svolgimento delle attività scolastiche e più avanti su quelle lavorative.

 “La competizione fa parte della natura umana e i bambini competono per natura. I bambini devono fare i bambini. I bambini giocano una partita per volta e vada come vada la terminano per cominciarne un’altra, senza mai perdere la misura dei loro limiti. E’ importante che gli Istruttori e i genitori insegnino loro a vincere e a perdere senza eccessive esaltazioni o drammi”.

Prof. Maurizio Mondoni    #iostoconibambini  

sabato 29 marzo 2014

Tiri liberi cambia veste, la Virtus madrina della nuova serie

Notizia per gli appassionati di BASKET: MARTEDI' prossimo, alle 22.30, subito dopo la telecronaca di Banco-Montegranaro, parte la nuova stagione di TIRI LIBERI. Iniziamo in ritardo perchè la Dinamo era impegnata in Eurocup. Il programma cambia veste. Non più chiuso in un ambiente classico, come quello dello studio televisivo, ma più fresco, giovanile. Ogni puntata, infatti, sarà ospitata sui campi da gioco di varie società isolane, con i bambini, dirigenti e coach che ci aiuteranno anche a lanciare i servizi. Chiaramente l'attenzione massima sarà riservata alla Dinamo, ma cercheremo di coinvolgere un pò tutti. La prima puntata sarà girata alla Virtus Cagliari

Andrea Sechi

mercoledì 5 giugno 2013

Il basket c'è ma non si vede


Pubblichiamo due articoli molto significativi di Eduardo Lubrano, opinionista di Dailybasket, che evidenziano quanto il nostro amato sport possa passare in secondo piano. Leggere per credere

23 maggio 2013

Sedevo durante gara sette dei quarti di finale tra Acea Roma e Trenkwalder Reggio Emilia alla sinistra del collega de Il Messaggero Carlo Santi. Al termine della gara, ci siamo resi conto che l’impresa della Lenovo Cantù a Sassari cambiava le carte in tavola non solo per l’avversario di Roma nella semifinale, ma soprattutto cambiava l’ordine delle partite casalinghe dell’Acea che adesso si trova a dover giocare le prime due in casa. E le prime due erano fissate per venerdì 24 e domenica 26 maggio alle 20.30.
Ci siamo subito resi conto, noi giornalisti romani della difficoltà della situazione di domenica quando in città si svolgeranno non solo le elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio comunale e l’elezione del nuovo sindaco (non una cosa da poco) ma anche per il tanto atteso dalla città sportiva derby-finale di Coppa Italia. Un derby Roma-Lazio, finale di Coppa Italia, che mette in palio l’ultimo posto per l’Europa del calcio dell’anno prossimo. Se qualcuno vuole aggiungere altro al pathos di questa partita lo faccia ora o taccia per sempre…
Il collega Carlo Santi ha immediatamente telefonato ad un dirigente della Lega, di cui non farò il nome nemmeno sotto tortura per proteggerlo dagli sfottò… che meriterebbe, alla domanda se era pronto un piano B vista la situazione che si andava addensando a Roma domenica prossima ha risposto che non sapeva nulla del derby e che dunque non era pronto e previsto nessun piano B. All’obiezione che altri colleghi hanno fatto allo stesso dirigente solo pochi minuti dopo la telefonata di Carlo Santi e cioè che con il derby previsto alle 18 il rischio che la partita possa finire ben oltre l’inizio di gara due (supplementari, rigori, premiazioni, ecc. ecc.) e che a quel punto una delle due tifoserie si potesse lasciare andare ad atti di vandalismo a cominciare dalla zona del Flaminio dove stadio Olimpico e Palazzetto sono vicini meno di un chilometro, la risposta è stata che “il tabellone non si può toccare”….
Al momento di scrivere questo post, le 23.47 di mercoledì 22 maggio, nessuna decisione è stata presa, dunque tutto lascia pensare che tutto verrà lasciato come da previsione. Salvo anticipare come sfuggito a mezza bocca a quel dirigente della Lega, di giocare gara due a mezzogiorno di domenica, Ma non c’era una regola che diceva che tra una gara e l’altra di play-off devono passare almeno 48 ore? Regola tra l’altro molto condivisibile, chissà come finita nelle norme di questa Legabasket.
C’è poco da scherzare questa volta perché qui si scherza col fuoco, quello vero, quello che i violenti del calcio hanno dimostrato più volte anche quest’anno di saper accendere nei dopo derby, ma anche prima purtroppo a Roma. Un incendio dal quale per ogni evenienza, quelli della Lega basket dovrebbero far di tutto per tenere lontana la loro gente. A costo di qualunque cosa: cambiare i giorni delle semifinali, metterle tutte e due nelle stesse giornate ad orari diversi così da poterle trasmettere tutte e due, sfalsandone poi una per far recuperare l’alternanza e dando u riposo equo a tutte e quattro.
Magari nel momento in cui leggete questo post il Prefetto ed il Questore di Roma hanno preso in mano la cosa ed hanno deciso d’autorità un’altra collocazione. E se così fosse sarebbe stata un’altra occasione persa per dimostrare un minimo di buon senso. Perché la Lega comunicherà qualcosa giovedì verso l’ora di pranzo. Quando Cantù magari sarà già in viaggio verso Roma. Ed anche la squadra brianzola merita rispetto e merita di sapere come organizzare le sue trasferte e gli allenamenti.

4 giugno 2013

C’eravamo lasciati con la preoccupata attesa per le decisioni del Prefetto di Roma per la concomitanza del derby di Coppa Italia con gara due tra Acea e Lenovo Cantù 


Il quale Prefetto appena informato della faccenda ha ovviamente detto alla Lega Basket “La partita la giocate quando volete ma non domenica 26!”. Più o meno.
Alla faccia de “Il tabellone non si può toccare” come aveva risposto perentorio il “Director, Media Relations & Communication” Maurizio Bezzecchi (ho fatto copia e incolla del titolo dal sito) della Lega stessa alle nostre prime obiezioni da Roma la sera stessa in cui eravamo venuti a conoscenza del pericoloso incrocio.

Ma poiché siamo appassionati di basket in questo paese dobbiamo soffrire e portare tante croci. Quella della Lega per cominciare. Gli orari di questi demenziali play-off (al meglio delle sette partite dai quarti …): alle 20, alle 20,10 e alle 20,45. Mi starebbe anche bene se ci fosse qualcuno in Lega o alla Rai che spiegasse i motivi di questi orari. Purtroppo la sensazione è che nessuno abbia un’idea strategica, quale che sia, magari discutibile, ma un’idea che giustificasse questi spostamenti. L’importante è aiutare gli spettatori televisivi ad avere delle certezze…ed i giornali della carta stampata a fare sempre più tardi. Grazie.
Poi c’è un’altra cosa che non riesco a spiegarmi. Quelli della Lega sono così attenti alle questioni di marketing, almeno così dicono, che l’errore di cui sto per parlare assume dimensioni enormi perché commesso ai danni di una società affiliata.
Dunque durante gara tre fra Acea Roma e Lenovo Cantù, aprendo il tabellino della partita la stessa era chiamata “Cimberio Varese-Montepaschi Siena”. Mosso da solerzia del tutto ingiustificata non avendo alcuna relazione con l’azienda romana di elettricità ed acqua, ho mandato un sms al Director, Media Relations & Communication di cui sopra, informandolo della svista. “Grazie della segnalazione” è stata la risposta. E qualche minuto dopo è apparsa la scritta Virtus Roma-Lenovo Cantù. Altro sms del sottoscritto al Bezzecchi:”Scusa ma Roma si chiama Acea e non Virtus Roma”. Nessuna risposta ma negli ultimi cinque minuti della partita la dizione finalmente è andata a posto.
Ma durante gara 5 la storia si è ripetuta: Virtus Roma-Lenovo Cantù. A quel punto, testardo, ho riscritto allo stesso Maurizio Bezzecchi chiedendogli come mai solo con la squadra di Roma la Lega commettesse questo errore imbarazzante visto che la sponsorizzazione tra Acea e Virtus Roma non è stata disdetta da nessuno. Silenzio. E nessun cambiamento. Spero che l’Acea faccia qualcosa contro questi signori, professionisti del dilettantismo.
Però c’è anche la Rai a darci un’altra croce addosso. Tralascio la questione tecnica delle ripresa delle partite perché e meglio. Lo spot che gira (l’ho visto qualche minuto prima di gara 5 tra Varese e Siena lunedì 3 giugno) per reclamizzare i play-off è ancora quello di oltre un mese fa e recita: ”Iniziano i play-off del basket di serie A…otto squadre a contendersi il titolo…ad infilare il cesto… dal 9 maggio su Rai Sport…”. Non sentivo l’espressione infilare il cesto da quando avevo 6 anni ed iniziavo a sgambettare malamente su un campo di basket. Ora ho 50 anni, fate voi i conti. E siamo a giugno…Va bene la spending review ma insomma uno spot si può rifare.
Infine vorrei chiudere questo sproloquio con una frase che ho sentito durante una partita, ovviamente sulla Rai ed il cui autore non rivelerò mai neanche sotto tortura. Si riferisce a Brian Bailey, la guardia di Roma, chiamata qualche secondo prima Baileys, come la famosa crema di whiskey:” Chiedo scusa, Bailey non è un liquore da bere ma un giocatore da usare”.
Ma perché?

Fonte: Dailybasket


giovedì 31 gennaio 2013

DELLA SUPERIORITA’ DEL BASKET SUL CALCIO


Una volta tanto il pensiero vola veramente leggero, come da titolo della rubrica. Vi propongo un argomento veramente da bar, perché sia fonte di discussione, di dibattito anche virtuale: la superiorità della pallacanestro, netta, sul calcio. Forse – direte – non c’è nemmeno bisogno di parlarne tanto è scontato questo concetto però di seguito voglio proporre qualche argomentazione concreta, scusandomi con tutti se su queste sacre pagine stanno per apparire parole del gergo calcistico e quindi “sacrileghe”. Sarà la prima e l’ultima volta, lo giuro! Dunque, l’assunto, secondo me, è il seguente: il basket è lo sport migliore del mondo, il calcio è infinitamente inferiore e lo dimostra il fatto che si è evoluto copiando di sana pianta dalla pallacanestro. Qualche esempio? Eccoli, in attesa di riceverne altri da voi:

- la difesa a zona: nel calcio si parla di Sacchi come di un grande innovatore, l’uomo che ha cambiato il calcio più di tutti nella sua storia recente. E qual è stata la sua principale innovazione, peraltro già proposta una decina di anni prima da almeno altri due allenatori? La difesa a zona, cosa che la pallacanestro utilizza praticamente da quando è nata (più o meno). E i principi chiave della zona calcistica? Cose che sui campi da basket sono abituati a fare tutti, in qualsiasi categoria, dall’NBA al campionato UISP. E che cos’è la fantomatica “diagonale” evocata da tanti allenatori e critici del calcio se non il lavoro del difensore sul lato debole che si stacca dal suo e si piazza in mezzo all’area?

- i blocchi: gli appassionati di calcio, sempre che ce ne siano tra chi sta leggendo, ricorderanno sicuramente la sfida fra Barcellona e Milan dello scorso aprile. Vinse il Barca 3-1 e il secondo gol arrivò da un rigore generato da un fallo di Alessandro Nesta. L’ex difensore del Milan perse il suo uomo su calcio d’angolo grazie ad un fantastico blocco portato da Carles Puyol, un blocco che sembrava portato da Mason Rocca e che suscitò tante proteste rossonere. Nel regolamento del calcio la parola blocco non risulta neanche scritta, figuratevi il concetto; un arbitro, a precisa domanda lontano (ovviamente…) dai microfoni mi ha fatto capire che l’argomento blocchi non è mai stato neanche trattato, che al limite si può applicare il concetto di fallo d’ostruzione… Insomma alcuni allenatori hanno capito che qui c’è terreno fertile per lavorare: guardate cosa succede in area prima di un calcio d’angolo e ve ne renderete conto.

- il backdoor: avete in mente il gol della Juve contro il Genoa? Quello di Quagliarella su cross di Lichtsteiner? Soffermatevi sul movimento di Lichtsteiner che riceve una gran palla da Vucinic: un taglio dietro la schiena del disorientato difensore genoano pescato fuori posizione e con la stessa faccia stupita del cestista che si fa fregare da uno dei movimenti più umilianti, ma più immarcabili, che gli illuminati padri della pallacanestro hanno saputo inventare. Che cos’è questo se non un perfetto backdoor? Mancava solo la finta verso il centro del campo, elemento chiave del backdoor: quei copioni del calcio arriveranno anche a questo, date loro solo un po’ di tempo…

- le statistiche: da qualche anno il calcio prova ad affidarsi ai numeri. Qui siamo di fronte ad un maldestro tentativo di emulazione: nella pallacanestro le statistiche sono spesso la chiave, se si sanno leggere, per spiegare e capire una cosa così elementare come il calcio, invece, i numeri sono davvero superflui.

- la terminologia: assist, palla persa, tap-in, blocco. Più passa il tempo e più sbucano termini cestistici in una partita di calcio. Solo l’allenatore resta “il Mister” e non “il Coach” ma è solo questione di tempo…

- la tecnologia: nel basket uno scudetto si è deciso guardando non solo il campo ma anche un monitor, nel basket per un paio di stagioni gli arbitri hanno parlato ai microfoni di Sky alla fine della partita. Nel calcio da tempo vorrebbero copiarci ma non ne hanno il coraggio. E per andare avanti, per crescere, ce ne vuole tanto: copiare non basta.

GERI DE ROSA

Fonte: dailybasket

mercoledì 26 dicembre 2012

Mix perfetto...Giovani ed esperti per Vincere di piu'!


Interessante articolo scritto da coach Giovanni Venuto, che evidenzia l'importanza dell'utilizzo dei giovani, unito all'esperienza dei veterani di questo sport, formula che in certe categorie si è dimostrata vincente.

Con la giornata di ieri per i più si è chiusa la prima parte della stagione agonistica 2012/13. “Niente di nuovo all’orizzonte del nostro basket?” A questa domanda preferisco attendere le risposte di tutti coloro che amano e conoscono il nostro sport. Gennaio 2013 iniziera’ con l’Assemblea Generale della nostra Federazione; sara’ in quella occasione che i delegati ascolteranno il Bilancio Consuntivo degli ultimi anni e subito dopo anche il Programma del nuovo Corso della F.I.P. Tornando al tema del titolo, ho visto ieri sera a Cassino, con piacere una palpitante partita di campionato DNC tra la squadra locale e il Palestrina, che ieri festeggiava i suoi primi 50 anni di storia cestistica. La gara è terminata dopo 2 tempi supplementari con la vittoria del Cassino per 93-87 (12-20, 19-23, 15-10, 20-13, Suppl. 27-21).

Fin qui tutto nella norma, poi a guardare l’andamento della gara nei punteggi dei primi 4 tempi regolamentari si scopre nelle cifre che le due squadre hanno mostrato quanto di buono offrono quintetti formati da giovani e giovanissimi, ma nello stesso tempo quanto è determinante l’assenza di giocatori piu’ esperti nei momenti chiave di ogni gara. La storia del Basket Nazionale ed Internazionale (vedi Campionati d’Europa, del Mondo e delle Olimpiadi) è piena di esempi dove alla meta’ delle gare sembra che un divario notevole tra una e l’altra sia ormai un verdetto finale acquisito, mentre poi al termine vero della partita il risultato è ribaltato. Se ognuno pensasse a quante partite sono state vinte o perse per 1 o piu’ punti, grazie a giocate frutto di atleti e coaches esperti, beh! penso che la bilancia pende certamente dal lato dell’esperienza. Un saggio antico diceva: “La freschezza dei giovani insieme alla esperienza degli anziani” puo’ dare piu’ certezze al percorso da fare. Desidero chiudere questo articolo con una speranza, che spero sia condivisibile, vedere ricrescere la Pallacanestro Italiana ad un ritmo e con risultati piu’ consoni alla nostra storia, che faccia ritornare a vincere Coppe e Medaglie a livello Internazionale, utilizzando ogni energia FRESCA e MATURA in un MIX perfetto che sia frutto di SCELTE meditate e prodotte da UOMINI COMPETENTI che lavorino insieme ascoltando anche la voce dell’ultimo dei tifosi, dei giocatori, degli arbitri degli allenatori, dei medici, dei dirigenti, dei Media, etc. etc….in una sola parola di TUTTI proprio TUTTI.
BUON NATALE e FELICE ANNO NUOVO


coach (Giovanni Venuto*) 

Fonte: pianetabasket

mercoledì 19 dicembre 2012

Le opinioni di Coach Venuto


Pierfrancesco Oliva, terzo prospetto futuribile... per la NBA ?


Il punto interrogativo che ho messo nel titolo è doveroso, non perché l’atleta che presentero’ non abbia il talento per riuscire a diventare un atleta di grande valore, ma solo per rimarcare che a 16 anni di età qualunque giocatore di pallacanestro deve essere allenato da istruttori/allenatori che non pensino a vincere oggi a danno di un atleta che spesso viene utilizzato in RUOLI che in futuro limiteranno il suo bagaglio tecnico.
Per fortuna, del giovane OLIVA Pierfrancesco h.2,02 -Guardia/ALA della Soc. Virtus SIENA gioca in una squadra di una delle SOCIETA’ tra le piu’ lungimiranti dell’Italia Intera; dove dal settore Minibasket sino alla 1^ squadra, viene fatto un lavoro ottimale sia dal punto di vista tecnico che organizzativo. Certamente giocare in DNB e contemporaneamente nel settore giovanile porta dei vantaggi sicuri a qualsiasi giovane abbia questa possibilita’, però anche in questo caso va sottolineato che far giocare piu’ gare di campionati a settimana, espone un giovanissimo a rischi di infortuni muscolari da stress, per cui occorre come sempre VIGILARE e programmare BENE allenamenti e partite. Tornando al giovane OLIVA mi permetto solo di suggerire di fargli provare tutte e TRE le posizioni di Esterno (GUARDIA/PLAY e ALA) soprattutto in allenamento o in gare dove il risultato fosse gia’ scontato per esempio nella fase preliminare dei Campionati Giovanili di Eccellenza. I primi ad avvantaggiarsene sarebbero il giocatore, la societa’ di appartenenza e In prospettiva anche la NAZIONALE ITALIANA sia a livello giovanile che in futuro quella massima espressione della nostra Pallacanestro. Se poi madre natura dovesse farlo crescere ancora un bel po', ben vengano altri centimetri, perché la tecnica acquisita servira’ sempre e comunque in ogni caso.

Scritto da: (Giovanni Venuto)

mercoledì 28 novembre 2012

Tecnica - Le differenze tra attacco e difesa


Ho analizzato tutti i risultati, dopo un TERZO del totale GARE gia' giocate, dalle squadre che partecipano ai Campionati della Lega Nazionale (Div.A - B - C).
Tutte le Prime in classifica e a seguire le altre TRE posizioni di testa hanno avuto degli ATTACCHI prolifici e le DIFESE nella giusta proporzione.
Nessuna squadra di testa si trova in vetta alla propria classifica grazie positivo alla SOLA DIFESA, sono evidenti e chiari i dati che arrivano dai loro ATTACCHI, che mostrano un andamento regolare e positivo sia nelle gare giocate in casa che in quelle fuori casa.
Moltissime volte ho ascoltato pareri differenti e posizioni completamente opposte tra coloro che prediligono L'ATTACCO o La DIFESA; opinioni rispettabili che danno vivacita' e aiutano a migliorare il nostro sport. Ora pero' inserirei un pensiero e una domanda che potrebbero sembrare banali ma non lo sono.
"Qual è l'essenza di ogni gioco di squadra?"
TUTTI risponderemo VINCERE, ed allora per vincere occorre fare almeno un PUNTO piu' degli avversari e anche FAR DIVERTIRE il PUBBLICO che segue le GARE.
ERGO ogni volta che una squadra SEGNA dei PUNTI in attacco, se si potesse misurare l'ADRENALINA che si forma nel sangue di tutti i protagonisti in CAMPO e FUORI dal CAMPO, sono certo che i LIVELLI saranno sempre piu' alti di quelli registrati assistendo ad una BUONA DIFESA, che comunque resta sempre di FONDAMENTALE IMPORTANZA nell'economia dei RISULTATI FINALI.
P.S. Se non ricordo male le Classifiche dei migliori Attaccanti nel MONDO sono quelle piu' VISTE e controllate e questo comunque NON Vuol DIRE che i Grandi Difensori non siano DEGNI di RISPETTO.

Grazie!

Coach Giovanni VENUTO

Fonte: pianetabasket

mercoledì 21 novembre 2012

Pensieri LegGeri – di Geri De Rosa


Un raggio di sole                    
                                                                             
Siamo nel pieno della tempesta, nel momento in cui noi 
poveri appassionati di basket siamo in totale balìa degli eventi, sballotati qua e là da onde che più anomale non si può. Esiste al mondo uno sport professionistico in cui si gioca una partita come Caserta-Varese? Quella in cui, per colpa della condensa, due giocatori si sono fatti male e ha vinto chi è riuscito a stare in piedi? Esiste una Lega sportiva al mondo che rinuncia a piazze che hanno costruito la sua stessa storia e che sono la base stessa della sua esistenza quasi con (malcelato) piacere, senza soprattutto fare nulla per salvarle, né dopo né, soprattutto, prima?
Si è mai visto, al mondo, uno scempio non solo televisivo ma soprattutto di comunicazione come quello del match Roma-Siena, una clamorosa manifestazione di inettitudine? Purtroppo sì, sono tutte cose che, nel breve volgere di pochi mesi, abbiamo visto noi, sempre quelli in balìa della tempesta; e non sono gli unici, anzi.
Chi dovrebbe prendersene la responsabilità, chi avrebbe dovuto scusarsi per la figuraccia di Roma (e poi, per dignità, andarsi a nascondere), continua a far finta di niente, esempio lampante della assoluta trascuratezza, della poca voglia di lavorare, con cui è trattato il nostro sport. Non mi viene in mente, del resto, un altro motivo che possa spiegare una diretta televisiva a lungo senza audio e poi con il comico sovrapporsi delle voci di telecronisti di due emittenti diverse, evento unico al mondo, grottesco mix di arroganza, superficialità, lassismo e incapacità.
Per fortuna, in questo mare in tempesta, in questo fase di Medio Evo cestistico, in questo buio totale di idee, lungimiranza e voglia di fare qualcosa per il bene comune, da qualche settimana è sbucato un raggio di sole, un filo di speranza che fa guardare al futuro con po’ di ottimismo: Varese, e non certo perché è in testa alla classifica.
Chi è in balìa delle onde su una zattera guidata male, da chi non ha voglia e non è neanche capace, non guarda la vittoria o la sconfitta; guarda semmai il raggio di sole proposto da una società che era in crisi nera, che non sapeva come arrivare alla stagione successiva e che allora si è ingegnata, cercando con fantasia e dedizione le risorse necessarie prima per sopravvivere e poi per vivere. Cecco Vescovi e il suo gruppo, Frank Vitucci e il suo staff, per tirare avanti, negli ultimi anni hanno dovuto mettersi in gioco, insudiciarsi le mani, rovistare nella spazzatura e senza questo lavoro sporco oggi Varese ed Avellino non esisterebbero più.
Questa esperienza, frutto di passione, umiltà e voglia di fare, sta dando risultati fantastici, ben al di sopra delle aspettative degli stessi protagonisti; magari verrà il giorno in cui uno di loro, o uno come loro, salirà sulla zattera per spingerci fuori dalla tempesta, verso quel raggio di sole.    

Fonte: dailybasket                  

Zona, come sei ridotta!


C’era una volta la difesa a zona, un sistema difensivo efficace, capace di ostacolare o invalidare le manovre offensive o di riportare in linea di galleggiamento le squadre che cedevano sotto i colpi di attacchi alla difesa individuale ben articolati, in grado di individuare i punti deboli della difesa e punirli con successo.
Spiace dirlo, ma oggigiorno, salvo rare eccezioni, non è più così.
Da sempre considerata sorella minore di quella individuale – non per età ma per l’importanza attribuitale – la zona balza di tanto in tanto alla ribalta e all’onore della cronaca non tanto per l’impatto positivo che esercita sul gioco della squadra che la adotta ma, al contrario, per la sua inefficacia.
Vero è, per non denigrarla oltre misura, che la sua adozione a sorpresa produce a volte gli effetti voluti per l’evidente impreparazione di chi la attacca, dovuta a desuetudine e poca attenzione, a colpire i suoi punti deboli. Ma spesso è improduttiva perché è usata impropriamente, in modo inadatto a complicare le svolgimento delle manovre offensive e a incepparle fino a provocare penalizzanti ricicli.
Anziché favorire agevoli recuperi o buoni vantaggi diventa un mezzo che causa affannose rincorse e che consente all’attacco di causare ferite profonde nel suo tessuto connettivo che ne indeboliscono la consistenza. Il muro difensivo mostra spesso e volentieri crepe che lo indeboliscono e che, facendosi sempre più ampie sotto i colpi dell’attacco, finiscono per sgretolarlo.
Spesso il suo impiego – esiguo, senza alcun dubbio, in termini di minuti – appare spesso improvvisato, estemporaneo e incapace, quindi, di trarre benefici da un vantaggio per niente secondario: molte squadre non la sanno attaccare per l’impreparazione dovuta allo scarso tempo dedicato per preparare le azioni offensive.
Nel corso di non poche partite viene da chiedersi perché un allenatore ricorra alla zona – fatto salvo l’evidente e logico tentativo di ovviare a carenze di quella individuale o di sorprendere l’attacco – contando di ricavarne un vantaggio competitivo.
In campo si vede un ibrido che dimostra poca attenzione non soltanto ai dettagli e alle particolarità di ogni versione adottata – “2-3”, “1-3-1”, “1-2-2”, ecc… – ma anche, ed è ben più grave, alle norme canoniche che ne regolano adozione e sviluppo. Si vedono movimenti impropri, imprecisi che favoriscono l’attacco capace di leggerli tempestivamente e di adottare le contromisure appropriate.
E pensare che, se ben eseguita, questa difesa è, a dispetto dell’opinione di molti che le preferiscono la più dinamica difesa individuale, efficace e gradevole da vedere. Quando è ben giocata è una delle migliori espressioni del gioco di squadra e guadagna, a pieno titolo, la parte di merito che deriva dal rendere piacevole e spettacolare il basket.
Il movimento coordinato dei cinque difensori, i corretti adeguamenti alle iniziative degli attaccanti, la prontezza nel chiudere i varchi, la capacità di imporre, di forzare le scelte dell’attacco sono solo alcuni degli aspetti positivi di una difesa a zona valida e vincente.
Con questa tirata non si vuole che la zona diventi la difesa base di parecchie squadre (così come fa Jim Boeheim con la sua Syracuse impiegando la “2-3”, con qualche scampolo di “match-up”, come difesa standard per l’intera partita), ma che le sia prestata maggiore attenzione, l’attenzione che merita.
In chiusura e in tutta modestia, un invito quindi agli allenatori, di qualsiasi livello, e ai giocatori, di qualsiasi categoria: ripulite dalle scorie le manovre difensive della zona, nelle sue varie forme, e i fondamentali individuali connessi. Ne beneficerà l’efficacia della difesa, che incrementerà la sua temibilità e, di conseguenza, la qualità complessiva del gioco e il basket ne trarrà un ulteriore vantaggio tecnico-tattico e spettacolare.

ALDO OBERTO

Per ulteriori approfondimenti e curiosità sugli stili di gioco delle squadre si rimanda al sito
www.lavagnatecnica.it

Fonte: dailybasket


venerdì 2 novembre 2012

Serie A: 50 anni, e non sentirli


Il cervello dei primati

Tranquilli, non è una lezione di zoologia.
25 ottobre 1998: Varese batte la Virtus, in casa, di 4 punti, ed è prima in classifica, a punteggio pieno, assieme alla Fortitudo. Sei mesi e mezzo dopo, Varese vince gara 3 con la Benetton e conquista lo scudetto.
28 ottobre 2012: Varese batte Cantù, in casa, di 4 punti, ed è prima in classifica, a punteggio pieno, assieme a Sassari. Cosa accadrà fra sei mesi e mezzo, o giù di lì? Non è una domanda scontata, se non fosse che 3 serie di playoff al meglio di 7, invece che al meglio di 3, esigono un roster che Varese, relativamente alla quantità, ancora non pare possedere. Ma questa è la teoria, poi i due Franchi, Vescovi e Vitucci, sapranno inventarsi qualcosa, se sarà opportuno e possibile.
Per il resto, a parte, doppio ahimè, un paio di club scomparsi, o meglio ripartenti dal basso, altre differenze fra ora ed allora non vedo. E lo dico a ragion veduta: invece della Fortitudo, pretendente al titolo, la comprimaria in testa alla classifica, oggi, è Sassari, ma non si parli di sorpresa: la semifinale dell’anno scorso lo attesta. L’intera isola, la città, il club, il coach e la squadra hanno fatto un lavoro eccezionale in un tempo ridottissimo. Per cui, pretendere al titolo, fatte salve le stesse premesse fatte per Varese, non è certo un’utopia.
Intendiamoci, parlare di scudetto a cavallo fra ottobre e novembre non è altro che un gioco puramente accademico: diciamo che nel microciclo di inizio stagione, l’inedita coppia lombardo-sarda ha già acquisito meriti definitivi. Anche perchè le tre cosiddette grandi, chi più chi meno, non hanno ancora acceso tutti i loro motori, vuoi per rinnovamenti rivoluzionari in atto (Siena), vuoi per lo sforzo immane, ancorchè trionfale, di settembre (Cantù, Supercoppa e qualificazione all’Euroleague), vuoi per una ancora non trovata chimica e molte incertezze di inizio stagione (Milano). Gli inizi ancora poco rassicuranti delle rispettive Euroleagues ne sono un’altra testimonianza. Avremo modo e motivi per riparlarne.
Ma voglio tornare alle due bellissime di ottobre, nella persona di due cervelli straordinari: Francesco Vescovi e Meo Sacchetti. Non che non siano in buona compagnia, in società, altrimenti non sarebbero dove sono, ma loro due, e le loro storie, sono particolarmente ammirevoli, prima per quel tantissimo che hanno fatto da giocatori, e dopo per quello che stanno facendo fuori dal campo. Entrambi, peraltro, con una sequenza logica e coerente fra campo e scrivania/fischietto (anche se sono sicuro che Meo, il fischietto, non lo usa di certo…).
Checco, allora, classe 1964. Lo ricordo avversario quando era nelle giovanili, quando, sempre senza particolari spettacolarità di gioco, macinava ogni partita, senza errori, senza forzature, con una gamma di fondamentali insegnatigli da due carissimi amici, Bruno Brumana e Franco Passera. Lo ricordo quando Toto Bulgheroni, spesso, se lo portava dietro alle partite, perché aveva capito che il giovane era qualcosa di speciale, non pensava solo a mettersi scarpe e calzoncini, ma gli piaceva il basket, lo interessava già da adolescente. E poi, naturalmente, la carriera da professionista, di cui è perfino superfluo ricordare i fasti. Uno di quei giocatori che hanno sempre privilegiato l’uso della mente a quello del corpo, che pure non mancava di esplosività ed atletismo. Avere in campo lui significava, per l’allenatore di turno, non doversi preoccupare proprio di tutto tutto. A molto, pensava lui: il tale gioco da chiamare in attacco; la tale idea per far commettere il quinto fallo ad un avversario pericoloso; la tale difesa per spezzare il ritmo altrui; il tale incoraggiamento ad un compagno che potesse averne bisogno. Insomma, una macchina perfetta per vincere.
Ed eccoci a Meo, classe 1953. Data l’età, un anno meno di me, non ho avuto l’avventura, o meglio la sventura, visto che l’avrei solo affrontato da avversario, di incontrarlo nei giovanili, sia perché agiva in Piemonte, fuori dalle mie competenze territoriali di allora, ma anche perché non mi pare abbia avuto una carriera particolarmente brillante prima del professionismo: confesso la mia ignoranza in proposito (Meo, correggimi, e scusami, se sbaglio!). In compenso, ricordo molto bene la sua carriera, da Asti a Varese via Bologna e Torino, e soprattutto la sua evoluzione tecnica in campo. Due distinti modi di giocare: ad Asti e Bologna, l’allora Gira sponsorizzato Fernet Tonic, giocava da ala piccola, usando soprattutto la sua strapotenza fisica rispetto ai pari ruolo. E dunque penetrazioni, rimbalzi, 1 contro 1 di forza e velocità. Nelle ultime sue due squadre, la magnifica e magica trasformazione. Forse anche grazie alla trovata rivoluzionaria di Dan Peterson, che impostò proprio l’anno precedente un’ala piccola, Mike Sylvester, da guardia nel primo Billy della sua (e nostra) era, alzando così la stazza del quintetto, Meo mosse ruolo e incombenze, trovando la perfetta sintonia fra la sua personalità e le esigenze agonistiche. Ecco quindi, da allora, una guardia di “testa” più che di “mano”: stesso ruolo di Mike, ma ben diversa interpretazione, fino a vincere allori olimpici ed europei. E dunque, letture, ritmo della partita, collaborazione stretta coi playmaker, da Maurizio Benatti a Torino a Dino Boselli e Francesco Anchisi a Varese, fra l’altro assieme a Vescovi, fino a Frank Johnson, l’ultimo playmaker della sua carriera, quando dovette lasciare, nel maggio del ’90, per un grave infortunio che gli precluse le ultime due partite della serie finale per lo scudetto contro Pesaro.
Entrambi pensanti in campo, dunque, ed entrambi conoscitori della materia come pochi, una qualità che assicura il loro valore aggiunto adesso che fanno trottare gli altri per raggiungere le mete prefisse. E se la carriera da dirigente di Checco è ancora agli inizi, foriera dunque di impensabili successi, quella di allenatore di Meo ha già una sua ben precisa fisionomia, peraltro curiosamente simile a quella già vissuta in campo. Nella prima parte, difatti, fino all’esperienza di Castelletto Ticino, Meo aveva, con molta dignità, peraltro, interpretato la professione senza particolari lampi (sia chiaro, sto esemplificando: ricordate che, sempre, la carriera di allenatore la fanno in gran parte i giocatori di cui disponi). Poi, d’incanto, la trasformazione, col passaggio a Capo d’Orlando. Da allora Meo ha sempre saputo ottenere il massimo dalle sue squadre: se Sicilia prima e Sardegna poi hanno giocato i playoff, lo devono soprattutto a lui. E anche questa è già storia patria, almeno cestistica.
Di Meo, in particolare, ammiro la calma tranquillità con cui affronta le partite, prima, durante e dopo. Una tranquillità non priva di tensione, certo, ma che viene trasmessa ai suoi giocatori nel modo più diretto ed efficace. Sono sicuro che a tutti (o quasi: la perfezione non è di questo mondo) quelli che hanno giocato per lui, il suo modo di interpretare il mestiere piace parecchio. Tutti sono contenti di giocare e dare il massimo per lui: sono convinto che Travis Diener ha usato anche questo argomento, e forse è stato anche decisivo, per convincere il cugino Drake a raggiungerlo a Sassari. Perché Meo vive il basket al suo meglio, senza drammatizzare ma anche senza scherzarci su. Ricordo quando vinse a Bologna, due stagioni orsono: a fine partita, non ricordo per quale motivo, gli venne chiesto un commento relativamente a un parziale subìto, o fatto, poco importa. Fatto sta che Meo, ancora accalorato per una vittoria che, all’epoca, poteva significare una tranquilla salvezza, per la sua neo-promossa Dinamo, rispose qualcosa del genere: “Sì, non so cosa è venuto in mente al “greco” di fare la tale cosa…” con ciò riferendosi a Dimitrios Tsaldaris, arrivato l’estate precedente, ovvero circa otto mesi prima. Chiamare “il greco” un proprio giocatore trovo sia uno dei massimi capolavori che mi sia stato dato di ascoltare. Ma con ciò, sia chiaro, nessuna mancanza di rispetto per il ragazzo: è solo, mi pare, l’emblema del suo magnifico approccio alla gara, ad ogni gara, ad un tempo disincantato e comunque votato al massimo obiettivo.
Checco e Meo: giocavano insieme negli anni ‘80, mi piacerebbe, un giorno, rivederli lavorare insieme, magari un club di rilevanza europea, come fu Varese e, spero, possa diventare Sassari, e insieme puntare ai massimi traguardi. Per il momento, si sono messi dietro tutte le altre. Grazie ai loro cervelli. Da primato.

Scritto da Franco Casalini

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